(Vai all’articolo redatto dopo il sopralluogo)
In attesa di elaborare prossimamente la recensione della mostra, ecco tre anaglifi (foto stereoscopiche) da guardare con gli occhialini rosso-ciano elaborati a partire da foto scattate alla bell’e meglio (con la camera del telefono, senza la necessaria attrezzatura specifica) l’8 dicembre us in occasione del sopralluogo effettuato per il GdA con L+V.
Alfa 40-60 hp Ricotti aerodinamica, carrozzeria Castagna, 1914 cliccare per aggrandire
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, posted on 14 Dicembre 2006 at 02:43, filed under
Spazio no. 7 1952-1953, p.21
(Cliccare: galleria di sette immagini)
Je me propose ici d’étudier certaines formes quant à leur rapport avec l’espace ambiant.
Une colonnade n’est pas uniquement un ensemble d’éléments verticaux dressés suivant des lois formelles et techniques; elle, régit également l’espace contenu entre ces éléments et engendre autour d’elle certains effets esthétiques dans l’atmosphère ambiante. Dans le temple de Poséidon, à Paestum, l’espace est étreint souverainement entre ces vies verticales que Valéry a appelées: «radieuses égales». (altro…)
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, posted on 6 Dicembre 2006 at 18:23, filed under
Av Torino Milano: scavalco A4 ed A26 (Tav.it)
Con somma urgenza ed indifferibilità s’è proceduto a costruire in quarantaquattro mesi quel che fu deciso di fare immantinente, nell’ottobre 1991. La Torino-Novara è stata inaugurata quasi quindici anni dopo, a fine gennaio 2006, in occasione della XX olimpiade invernale: 20Mln di mc d’inerte prelevati da dieci siti, 255 Km di strade ritoccate, 190 Km di piste provvisorie, 32 Km di strade nuove, picchi di oltre 6000 operai giornalieri (con rumori preoccupanti su problemi di caporalato ed infortuni) oltre 3Mln €/giorno di spesa, 4,15 Mld di € per questa tratta e 6,88 Mld di € occorrenti, in totale, per arrivare, forse nel 2009, a Milano.
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, posted on 4 Dicembre 2006 at 07:08, filed under
Linea Av Roma-Napoli: interconnessione di Caserta (Tav.it)
Con il nuovo orario ferroviario Trenitalia, dal dicembre 2005, è divenuto operativo, quasi per intero, il collegamento veloce Roma-Napoli. A ben diciannove anni dal Piano Generale Trasporti del sistema italiano alta velocità, a quattordici anni dal completamento della direttissima Roma Firenze oggi, insomma, a trentacinque anni dall’inizio dei lavori di quest’ultima prima, sono funzionanti appena 422 km di binario. Ed appaiono necessari lavori di ristrutturazione per i ‘vecchi’ 238 km onde adeguarli alle nuove esigenze.
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, posted on 3 Dicembre 2006 at 16:11, filed under
Etr 200 (209) Breda, fotografato a Sesto San Giovanni nel 1938 (Photorail.it)
galleria di tre foto: esterno, interno treno ed interno cabina di guida
Trenitalia, oberata da mille difficoltà, problemi ordinari e straordinari, a fatica si barcamena occupandosi del presente. Epperciò riesce difficile pensare abbia la forza di occuparsi del passato. Ed è un vero peccato perché si tratta d’una grande eredità, un patrimonio culturale.
Significativamente, nonostante l’importante ricorrenza del centenario dell’istituzione delle Ferrovie dello Stato, lo scorso anno non v’è stata, a riguardo, nessuna iniziativa degna di nota. (altro…)
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, posted on 1 Dicembre 2006 at 01:37, filed under
Guido Modiano Padiglione della stampa, Quadrante n.2
PADIGLIONE DELLA STAMPA (V triennale 1933, ndr)
La mostra della stampa alla Triennale costituisce un equivoco come programma d’esposizione e una occasione mancata come attuazione pratica. L’equivoco è annunciato nello stesso titolo, che autorizzava i grafici a sperare in una mostra sinceramente dedicata alla loro arte, come ad una delle arti minori. Invece per il direttorio, stampa è principalmente sinonimo di « giornale »: cosa che con l’arte grafica ha niente di comune, perchè il giornale, nel caso nostro, è considerato sotto la specie politica e lirica. (altro…)
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, posted on 29 Novembre 2006 at 00:39, filed under
Notre Dame de l’Arche d’Alliance, Paris
(Cliccare: galleria di undici immagini)
XVème arrondissement, 71 rue d’Alleray.
Vaugirard. Esco dalle budella della città, mentre le nari me ne rimandano ancora i nauseabondi effluvi.
Rue d’Alleray. Cinque… dieci… venti… trenta… trentasei… quarantatre. Snocciolo numeri che sembro Figaro; cerco un diavolo di fabbrica, e non riesco a trovarla. Dovrebbe esser qui; piccola come un ago, se c’è, non è! Sto per scassarmi: dopo la magra sorpresa di stamane, il cantiere attaccato con una fettuccina al parvis de la Défense, m’attendo – vada bene – qualcosa di simile. Le facciate lasciano spazio ad un varco… ecco: ottantuno! Finalmente, dopo averla vista, condensata in maquette, alle Zitelle, l’ho innanzi.
Cum animam gementem, contristatem et dolentem: NON è nera! Marron, d’un marron che rimembra poco edificante altro. L’oscuro cubo avrà spaventato il cardinale? Qui s’ammicca al santuario dell’Islam!
Qualsivoglia il motivo è, ahimé, certo non poca perdita, la tinta.
Lo scheletro esterno, la griglia, ipotetico tramite, dissolvenza tra sacro e profano sarà dipoi, a casa, tema d’un inedito, personale Aguzzate la vista: quarto livello dal basso, manca il terzo montante da sinistra.
Forse il desiderio di attenuare l’eccesso d’ordine, una boutade, come la finestrella ruotata nel reticolo, Quinta da Lago, Souto de Moura.
Ruoto la testa d’impiedi e rimetto ritto, come meglio mi garba, il sesto degli esili fusti d’acciaio: allineamenti visivi in gran copia; una sorta di pioppeto metallico.
Legno di rivestimento esterno previsto: sostituito. Succedaneo, pannelli in HPL, laminato ad alta pressione. Ave Maria impressa in caratteri gialli fitti sulla superficie, intelligibile solo gran dappresso. Altro rimando all’Islam…
Scalinata. La sorte mi assiste. Nuvole vanno e, adesso, vengono; scatto, leggermente sottesposto. Produco, casualmente, quel che avrebbe dovuto esser vera faccia: uno scorcio scuro.
Entro. Croce, croce, croce; croce 3D scavata nel cubo, croce incavata sul parterre, finestroni a croce, croce proiettata sull’abside e griglia crociata di delimitazione.
Dimentico della vera Croce, quale croce dimentico? Ah, quella minuscola reiteratamente incisa sul rivestimento interno; se è via crucis, veramente brutta è.
Croce sull’oculo. Gli piazzo sotto la reflex: paura d’abbruciare il film. Sottoespongo nuovamente. Ottengo una croce in più, inesistente, sulla griglia del sancta sanctorum. Potenza della Luce!
Dintorno non si scorge centimetro d’intonaco, se non attraverso pannelli a lamelle. Neon incassati a terra riverberano sui quattro cantoni, enfatizzandoli.
Muri e soffitto, tutto è Hpl (laminato ad alta pressione), come all’esterno, ma senza scritte. Nessun decoro. Molto è bellamente essenza.
Abside. Tabernacolo cruciproiettore, lampada votiva; tavolaccio-sedile, il coro. Altare: nettissimo parallelepipedo immacolato in Carrara. Candelieri: tre snelli cilindri d’acciaio, incassabili sinistra/destra sul pavimento ch’è ardesia, a spacco. Illuminazione: impercettibili terminali in fibra ottica, piazzati sotto bordogriglia, rischiarano la mensa. Ambone, o per meglio dire leggio, distante dalle equazioni canoniche. È acciaio, sospeso ed agganciato lateralmente ad un montante, provvisto anch’esso della brava crocetta.
Exsultate, jubilate? Via, no… ma il catino è ensemble eccellente, forse la parte più riuscita del tempio.
Tribune ai lati; passerelle sospese destinate ad accogliere opere d’arte?
Avanti, i finestroni – adduttori di troppa luce –, spero non abbandonati. Anzi. Piuttosto destinati alla primitiva finitura in alabastro, col Verbo traslucido impresso. Amen!
Nuovamente attrattovi, passo sopra la croce incavata nel pavimento; intravedo il fonte battesimale che si guadagna tramite la ripida scaletta, racchiusa da lastre vetrate sorgenti di sotto in su.
Muove sulla diagonale, la scala; parte, eccentrica, verso il vertice del quadrato opposto al fuoco sacro e si distende contemporaneamente in basso; risvolta su d’un pianerottolo triangolare arrivando, sdoppiate e sparse le ultime quattro alzate, nella spoglia aula dell’iniziazione.
Sulla fonte, scolpite fronte, fonti corpo vario invitano all’antifona d’entrata: « Dans le nom du Père… »
Fuori, dodicicolonne/dodiciapostoli/dodicitribùd’Israele abbracciano del battistero la cinta, sostenendo un cubo sopraelevato, il cui liscissimo estradosso inferiore, sbalzando, si raccorda alle altre facce tramite l’inefficace cornice a dentelli. Consunta memoria wrightiana?
Progetto, date contraddittorie; chi indica 1986 chi 1988. Ho null’affatto voglia di controllare. M’importa più sapere sia stato realizzato ben dieci anni dopo, a distanza di trent’anni (lasso temporale eloquente) dall’ultima consacrazione d’un nuovo edificio di culto dans cette ville.
1992: Pierre Vérot e Franck Debié: «Il progetto di Architecture Studio sfiora quasi il ridicolo moltiplicando i simboli […] che saturano lo spazio senza alcuna utilità autenticamente discesa dalla tradizione e dai bisogni della Chiesa»
No, di sposare questo giudizio, in gran parte, non me la sento.
Per esempio, WAM: KV 317, Krönungs-messe. Gloria; soprano, alto, tenore e basso saturano, al Domine Deo, lo spazio sonoro intonandone contemporaneamente le diverse parole, moltiplicandole, sfasandole, sovrapponendo voci, rendendo ridondanti e, teoricamente, incomprensibili… proprio i simboli. Eppure, a sentire, così non è.
È Architettura. Sacra.
In somma delle somme, fra molte chiese dall’aria dozzinale, ecco, ritratta, Notre Dame de l’Arche d’Alliance.
Ventiequaranta: ci si stacca da Roissy, fra stuoli di lepri indifferenti.
Avanti Le Bourget, il gallico capitaine fa gracchiare gli altoparlanti: « Voici, a votre gauche il y a le Stade de France où hier nous avons gagné… ». Appena in là, prima di tagliare la città, ecco l’Arche, stavolta battezzata Grand.
Coin est Cnit, appoggiato al parvis il puntino che attendevo: la gru già vista dal basso, segnale d’una prossima, promettente visita.
14 luglio 1998
Gabriele Toneguzzi
La Cité Celeste dessine un carré
Alors, l’un des sept Anges aux sept coupes remplies des sept derniers fléaux s’en vint me dire: « Viens que je te montre la Fiancée, l’Epouse de l’Agneau. » Il me transporta donc en esprit sur une montagne de grande hauteur et me montra la Cité sainte, Jérusalem, qui descendait du ciel, de chez Dieu, avec en elle la Gloire de Dieu. Elle descendait telle une pierre très précieuse, comme une pierre de jaspe cristallin. Elle est munie d’un rempart de grande hauteur pourvu de douze portes près desquelles il y a douze Anges et des noms inscrits, ceux des douze tribus des fils d’Israël; à l’orient, trois portes; au nord, trois portes; au midi, trois portes; à l’occident, trois portes. Le rempart de la ville repose sur douze assises portant chacune le nom des douze Apôtres de l’Agneau. Celui qui me parlait tenait une mesure, un roseau d’or, pour mesurer la ville, ses portes et son rempart; cette ville dessine un carré: sa longueur égale sa largeur. Il la mesura donc à l’aide du roseau, soit douze mille stades; longueur, largeur et hauteur y sont égales. Puis il en mesura le rempart, soit cent quarante quatre coudées. […] De temple, je n’en vis point en elle; c’est que le seigneur, le Dieu Maître de tout, est son temple, ainsi que l’Agneau. (Ap 21, 9-17.22)
La Gerusalemme Celeste/la Gerusalemme messianica
Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli e mi parlò: « Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello. » L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e ad occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è a forma di quadrato, la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: misura dodici mila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono eguali. Ne misurò anche le mura: sono alte centoquarantaquattro braccia, secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall’angelo. Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undecimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta è formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente. Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. (Ap 21, 9-17.22)
Sta in: Architetti PD, 2000
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, posted on 17 Novembre 2006 at 20:30, filed under
Copertina del volume Opere Pubbliche, 1932
Attilio Calzavara: un architetto del regime non allineato
Immaginate d´essere ministro dei lavori pubblici d´un governo autoritario e dover commissionare un´importante pubblicazione celebrativa per magnificare dieci anni d’attività del vostro dicastero e del regime nel campo delle opere pubbliche. (altro…)
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, posted on 14 Novembre 2006 at 00:21, filed under
Copertina del Manifesto del Terzo paesaggio
In questo preciso momento, ad un qualsiasi semaforo italico – sullo spartitraffico di turno –, si consuma l’ennesimo affronto ad uno scampolo di terreno. Un finestrino si abbassa ed implacabilmente qualcheduno scarica. Cicche, cartacce, plastica in sorte: per non parlare d’altro. Ecco illustrato, molto semplicemente, il caratteristico rapporto che intratteniamo con un tipico frammento del terzo paesaggio. Quello che, ad onta della sua invisibilità, è un habitat denso e, paradossalmente, fondato in gran parte da supposti spazi di risulta. Una sorta d’indefinita terra di nessuno. Qui avvengono accadimenti sconosciuti e piuttosto interessanti. Ma solamente essendo molto accorti potremmo coglierne il divenire e comprenderne l’importanza. Queste lande non sono fatte per i più, abituati alla naturalità giardinesca delle estese di prato plasticato monospecie, stucchevolmente rasate a mo’di tappeto daghestano.
In mille meandri residuali microscopici come un lichene, piccoli come un’aiuola, grandi come un fazzoletto di bosco planiziale di pianura miracolosamente sopravvissuto, ampî come declivi, vasti come quelli sottoposti al set-aside od abbandonati, si concentra l’indispensabile ed invisibile ricchezza della biodiversità. Sono lembi di suolo spesso ai margini delle città, vaghe isole sottoposte a pressioni fortissime da parte del territorio circostante. Qui, a tutte le latitudini, l’amalgama di specie animali e vegetali sopravvive nella varietà di comportamenti reciproci, evolvendo con una lentezza naturalmente esasperante nel tentativo di perpetuare il futuro biologico proprio e del pianeta. Piante pioniere, insetti delle più diverse specie, volatili, mammiferi. Esseri di piccola o grossa taglia. Questa è casa loro. Scegliere di non intervenire, in questi frangenti, è, per quanto bizzarro possa apparire, un’opportunità d’intervento.
Una boscaglia intricata ha un suo proprio ordine, pazientemente decifrabile. E questa constatazione può fungere da molla per ripensare il governo degli spazi aperti in modo più originale. L’osservazione attenta può portare a mutuare intuizioni anche per il più piccolo giardino, secondando la natura, al posto di combatterla. Sovente, le preferenze medie di chi commissiona verde, sono per l’impianto di individui asettici, che possibilmente non rilascino fastidiose foglie, privilegiando improbabili e costose piantagioni esotiche. Tanto che, ad esempio, il riuscire a mettere a dimora un semplice olmo è divenuto gesto assai insolito. Queste cose racconta nel suo libro Gilles Clément, che ha il non trascurabile merito, in poche e fittissime pagine apparentemente frammentate, di focalizzare e definire in autonomia, a seguito di sperimentazioni personali, i contorni del terzo paesaggio, scrivendone poi il manifesto.
Jardinier et écrivan, come lui stesso succintamente ama definirsi, Clément è, innanzitutto, un fine pensatore. E proprio il continuo interrogarsi, l’indugiare a lungo su aspetti non meramente formali, oltre a fare di lui un eccellente paysagiste lo rendono pure un raffinato teorico.
Gabriele Toneguzzi
Recensione apparsa su Parametro 264/265, luglio-ottobre 2006
Gilles Clément
Manifesto del Terzo paesaggio
(a cura di Filippo De Pieri)
Quodlibet, Macerata, 2005
pp. 87, 12.00 €
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, posted on 13 Novembre 2006 at 23:37, filed under
la biennale di venezia / rassegna delle arti contemporanee n. 61
IL CARATTERE TIPOGRAFICO OGGI
È fuori discussione l’influenza che può avere il carattere tipografico nella formazione o deformazione del gusto e come esso sia o possa essere l’espressione di una sintesi dell’estetica visuale, quale si deduce in un determinato momento storico, in sintonia con le altre espressioni visive e anche in rapporto con le arti figurative e architettoniche o con altre attività di coordinamento di elementi visivi.
Mancano studi significativi e convincenti in ordine a questa realtà spesso sottovalutata o mal conosciuta.
Anche cultori assai autorevoli, se toccano l’argomento del carattere tipografico, sono portati talvolta a trattarne con sorprendente disinvoltura.
Gillo Dorfles, per esempio, all’inizio della sua interessante pubblicazione «Simbolo, comunicazione, consumo», volendo addurre un presunto evidente esempio di obsolescenza, un caso di rapido consumo, addita “…il divenire desueto del carattere tipografico Che verrà usato per comporre questo testo…”. Senonché, nel caso del volume del Dorfles, il carattere è il Garamond, che da quasi cinque secoli non accenna affatto a divenir desueto, anzi accoglie sempre più evidentemente ed universalmente il consenso dei grafici di ogni latitudine, ed è d’impiego sempre più generale e crescente.
La teoria dell’obsolescenza, perciò, occorre fondarla su basi più solide, perché la sua presunta generalizzazione indiscriminatamente riferita a tutti i casi di espressione visiva potrebbe essere facilmente contestata. Il “consumo” è un fatto certo e dimostrabile e anche statisticamente studiato con qualche successo, ma è altrettanto certa e dimostrabile la “persistenza nel tempo di determinate espressioni”.
Ho cercato di dimostrare nella recente Mostra della «Lettura del linguaggio visivo» organizzata dalla Scuola di Scienze e Arti grafiche deI Politecnico di Torino, che converrebbe studiare le espressioni visive utilizzando le risorse metodologiche in uso nelle trattazioni di quello che, troppo unilateralmente, finora è stato ritenuto in sede accademica l’unico linguaggio suscettibile di studio, vale a dire l’oggetto della glottologia.
La parola linguaggio va assumendo accezioni più ampie del circoscritto uso tradizionale riferentesi alla mera glottologia sebbene non è da oggi soltanto Che si parla di linguaggio pittorico, architettonico, musicale, ecc.
Nello studio della linguistica intesa come attività sociale di espressione e comunicazione, riferita a qualunque forma o mezzo di cui ci si possa servire, oltre al modo consueto della parola, sono certamente utili le indagini e le conclusioni elaborate dai linguisti tradizionali.
La stessa faticosa e ancor non raggiunta rivendicazione dell’autonomia della scienza linguistica, anzi l’ancora discussa definizione dell’oggetto della scienza del linguaggio, dimostra la labilità di certe demarcazioni troppo esclusive.
Le concomitanze ai vasti campi affini o indirettamente implicati col fatto linguistico rendono più problematica la delineazione della scienza linguistica.
Infatti, a seconda delle specializzazioni, delle particolari tendenze o degli interessi dei singoli studiosi il linguaggio è stato talora considerato, come problema della conoscenza, oppure come la normativa dell’espressione, come Io studio del meccanismo fisico dell’emissione della parole, come manifestazione della personalità di singoli o di collettività o come critica letteraria.
Le implicanze del fatto linguistico con la filosofia, la fisiologia, la psicologia, l’antropologia, la critica letteraria e i conseguenti disparati compiti assegnati alla linguistica da singoli studiosi hanno reso più ardua la sistemazione dottrinale di questa disciplina.
Inoltre le varie prospettive di studio: origini, essenza, fini, strumentalità della lingua estendono il campo delle indagini e danno il senso della complessità e varietà della questione.
La tematica linguistica diviene ancor più impegnativa se oltre al consueto mezzo della parola o dello scritto si studiano altri tipici mezzi di espressione e comunicazione.
L’esigenza di estrinsecazione del pensiero o del sentimento con la fissazione di immagini di valore universale è il movente essenziale di ogni manifestazione linguistica, e si hanno molteplici modi di soddisfare a questa fondamentale esigenza dell’individuo in ordine alla società di cui fa parte.
Lo studio comparativo di questi mezzi di espressione e comunicazione rientra evidentemente nell’ambito della linguistica nel significato più ampio del termine.
Mi pare che si debba partire da queste premesse per rendersi conto della realtà del carattere tipografico.
La stampa, come linguaggio, è governata da leggi analoghe a quelle che si riscontrano nella genesi e nell’evoluzione del linguaggio umano.
La libertà della creazione individuale, le norme fissata dalla tradizione, Io svolgimento Storico sono gli aspetti fondamentali distinguibili e nella stesso tempo indissolubilmente legati che gli studiosi hanno rilevato nella loro indagine sul linguaggio.
Storici, sociologi, psicologi, critici, etnologi, glottologi, filologi incontrano in ogni fase del loro lavoro i problemi del segno e del significato, dell’espressione e della comunicazione, della parole a della lingua.
La stampa prende le mosse dalle esigenze linguistiche, non può prescinderne, anzi ne traduce e interpreta gli aspetti formali e ne segue le vicissitudini.
Come la lingua muta nel tempo, non solo, ma in ogni luogo e momento chi parla o scrive si serve dei modi espressivi di ambienti particolari distinguibili, così Io studio della stampa può rintracciare e seguire nel loro svolgimento storico tanto i criteri che hanno guidato la libertà creatrice dei singoli, in rapporto alle norme fissate dalla tradizione, come pure i procedimenti e le tendenze secondo cui tali norme si sono costituite e trasformate.
Occorre saper “leggere” il carattere tipografico. Il semplice segno alfabetico, oltre alla convenzionale struttura morfologica, esprime anche altre realtà ed è portatore di vari significati e funzioni; infatti al valore fonetico o altrimenti convenzionale sono congiunti: un indirizzo sociale, un significato emblematico, una funzione ornamentale, per limitare l’elenco agli aspetti più salienti.
Par studiare il carattere tipografico moderno bisogna prender le mosse da un’ampia prospettiva e anche nel nostro caso il metodo sincronico e diacronico trova una valida utilizzazione.
Non c’è stata soluzione di continuità all’origine della stampa a caratteri mobili tra l’aspetto morfologico delle lettere dei codici e quelle riprodotte in tipi.
La mutuazione della struttura morfologica e stilistica del segno alfabetico vergato del copista e quello punzonato nella matrice e fuso dai prototipografi non è un caso di assuefazione pura e semplice, per mancanza di originalità; è invece la dimostrazione di una legge inderogabile del linguaggio visivo.
Le mutazioni in questo senso avvengono lentamente con inesorabile gradualità.
La curva dell’obsolescenza, soprattutto dei caratteri per testi, segue un andamento di impercettibile variazione, con scarti di tempo assai lunghi; anzi si può notare una sorta di ancoraggio a soluzioni formali che sfuggono risolutamente agli andamenti fluttuanti della moda.
Stanley Morison, uno dei più autorevoli tipologi viventi, dichiara che un carattere di testo avrà fortuna se le variazioni formali saranno individuabili solo dagli specialisti, perché il pubblico dei lettori non tollera passaggi bruschi nell’aspetto dei caratteri di testo.
La prospettiva storica del carattere ha infatti poche tappe veramente fondamentali, anzi si può asserire che il faticoso travaglio di cinque secoli di stampa, in ordine al dIsegno dei caratteri, ha portato a delle graduali e quasi impercettibili varianti dello stesso tema stilistico, lasciando presso che intatta la struttura fisionomica del carattere Romano.
I più significativi disegnatori di caratteri si prefissero sempre e si prefiggono tuttora la strutturazione di un “Romano”, quasi ad attingere dalle classiche iscrizioni delle lapidi e monumenti dell’antica Roma l’ispirazione, e quelle antiche iscrizioni interpretare e tradurre in tipi. A conferma di questa asserzione basta l’accenno al carattere che anche in Italia si sta affermando attualmente e che con denominazioni aventi soprattutto motivazioni commerciali, si ispira al «Times new Roman», curato da Stanley Morison, che a sua volta è una delle più felici interpretazioni del Romano classico lapidario con l’arricchimento delle laboriose soluzioni che iniziarono col «Roman du Roi».
Una rapida scorsa all’opera dei più importanti tipologi e artisti del carattere latino per testi conferma ulteriormente quella tesi: Jenson, Griffo, Garamond, Granjon, Plantin, Grandjean, Caslon, Baskerville, Fournier, Fleischman, Didot, Bodoni, Ibarra, Walbaum, De Vinne, Dwiggins, Erbar, Gill, Austin, Goudy, Bayer, Butti, Novarese, Griffith, Höfer, Bauer, Krimpen, Mardersteig, Middleton, Miedinger, Morison, Renner, Tannhäuser, Trump, Tschörtner, Weiss, Winkow, Wolf, H. Zapf. Frutiger, ecc.
Si studino diligentemente le collezioni tipologiche di questi e di altri importanti artisti e si avrà conferma che, pur nella evidente diversità stilistica, c’è una costante e talora quasi impercettibile ricerca del perfezionamento della fondamentale struttura alfabetica romana.
Non si vuol dire che tra il romano jensoniano e l’Univers del Frutiger non ci sia divario di stile, si vuole soltanto sostenere che nell’elaborazione di caratteri non si tratta tanto di ricerca di sensazionali novità o di mode suggestive e passeggere, ma di un costante, graduale, perfezionamento di una stessa struttura, la cui evoluzione si svolge in modo analogo al fatto linguistico.
La lingua italiana attuale differisce dalle lingue del Trecento a dei secoli successivi, ma si tratta pur sempre fondamentalmente della stessa lingua italiana.
Un significativo caso di quasi testardo ritorno alle fonti genuine del carattere umanistico è quello di William Morris; egli si prefisse di combattere l’anonimismo industriale per conferire al lavoro un’impronta di personalità. Dalla Kelmscott Press il Morris pubblicò soprattutto col Golden Type delle edizioni significative sotto il profilo grafico e di coerenza stilistica con la linea teorica precedentemente formulata.
Ma come il linguaggio gradualmente si configura in modi diversi anche se emergenti lentamente, anche il carattere tipografico segue le vicissitudini generali delle espressioni visive e si sintonizza con le tendenze generali di rinnovamento stilistico.
Il fatto più significativo è dato dai “lineari”, ossia dai caratteri senza terminali.
La remota origine di questo stile tipologico può ricercarsi nelle antiche iscrizioni greche e latine che precedettero di vari secoli il Romano, prototipo dei caratteri classici di ogni tempo, ma i primi tipi lineari compaiono nel secondo decennio del secolo scorso.
Le collezioni alfabetiche di William Caslon IV, di Vincent Figgins, di William Thorowgood sono i prototipi di uno stile che doveva arrivare lontano e segnare una tappa assai significativa nella storia del carattere tipografico. Il secolo scorso si chiude col fortunato «Akzidenz Grotesk» della fonderia Berthold; nel nostro secolo c’è un crescendo quantitativo e un affinamento sempre più scaltrito nella tipizzazione dei lineari.
Une spinta verso la definitiva sistemazione anche teorizzata di questo moderno stile alfabetico fu data dalla Bauhaus, che contribuì all’affinamento e alla razionale applicazione dei lineari.
In polemica con la teorizzazione del Morris, la Bauhaus, convinta dell’impossibilità di un ritorno globale all’artigianato, e coll’intento di disancorarsi dagli schemi del passato, anche se illustre, puntò verso la nuova formula pedagogica secondo cui un oggetto deve essere soprattutto funzionale.
L’essenzialità, la razionalità, l’elementarità trovarono la loro naturale espressione anche nella tipologia “lineare”.
Ben presto e a lungo raggio la lezione fu compresa e l’esempio attecchì: pertanto si ebbe una ricca fioritura di collezioni aIfabetiche senza terminali
L’Erbar, il Futura di Paul Renner, il Kabel, Io Stahl, il Nobel, il Neuzeit Grotesk, i lineari della Monotype e molti altri ebbero un largo impiego.
Un posto a parte, per la diversa ispirazione stilistica, in un certo senso in, polemica con la didassi della Bauhaus, spetta al lineare di Edoardo Johnston eseguito per la Metropolitana londinese, e ai Sans serif di Eric Gill.
Le imitazioni e le contraffazioni naturalmente dilagarono ovunque, segno che il nuovo stile era man mano penetrato nell’uso, e si era formata la consuetudine visuale col lineare.
Recentemente la tipologia dei caratteri senza terminali si è arricchita di nuovi geniali interpretazioni, tra le quali spiccano l’Univers di Adrian Frutiger, l’Helvetica della fonderie Haas, il Mercator della fonderia Amsterdam, il Folio della fonderia Bauer.
Altra caratteristica assai rilevante che si è accentuata partendo dai primi decenni del secolo scorso è la varietà delle serie promananti da uno stesso ceppo stilistico.
Ai nostri giorni, l’introduzione della fotocomposizione ha accresciuto illimitatamente le possibilità delle variazioni dei tipi: modificabilità di pendenze, di nerezze, di spessori, allungamenti, inversioni, polimorfosi.
Ormai il limitato campionario di caratteri è un ricordo storico, e il moderno impaginatore dispone di risorse tipologiche inimmaginabili negli anni quaranta.
Sotto certi aspetti siamo alle soglie di una rivoluzione tipografica in ordine alla tipizzazione, e si può dire che i grafici attuali non hanno ancora tutta la consapevolezza delle nuove risorse e non sono sufficientemente scaltriti per dominare e strumentalizzare i nuovi mezzi grafici.
Ma, soprattutto per la composizione dei testi, c’è da riconfermare la validità delle fondamentali collezioni alfabetiche che hanno dato buona prova nel corso dei cinque secoli di stampa.
Il Bembo, il Garamond, il Baskerville,il Times new roman, il Plantin, il Walbaum, il Bodoni, il Van Dyck, il Bell, l’Imprint, lo Scotch, il Didot, lo Spectrum, il Centaur, il Dante, il Bulmer, il Goudy, l’Emerson, e altri classici della tipologia appartengono ormai all’essenza della tipografia che il tempo non cancellerà.
Del resto, ormai il carattere latino è stato oggetto di così attento, prolungato e universale studio che si può delineare un prospetto degli incasellamenti stilistici entro cui ogni futura elaborazione potrà essere agevolmente collocata.
La classificazione morfologico decimale che da anni ho sperimentato in sede didattica e in ambienti tecnici, costituisce, mi pare, un utile strumento per Io studio delle molte migliaia di collezioni alfabetiche esistenti e un agevole orientamento per le proprie scelte.
L’Impiego del carattere tipografico è un argomento assai allettante a ampio, ancora più vasto se si pensa che le forme alfabetiche interessano non soltanto la stampa ma anche l’architettura e, in genere, ogni espressione visiva.
Il volto delle città è anche marcato dei segni alfabetici che ne denotano il gusto e, in genere, gli orientamenti estetici. Un’iscrizione, un’insegna, una dicitura luminosa, come une pagina stampata contrassegnano la personalità del progettista o committente e influenzano il fruitore.
Anche il carattere tipografico è un fatto distintivo dl cultura e di sensibilità. Con esso possono ottenersi delle strutture grafiche che esulano del consueto uso dello stampato tradizionale.
Data la nature necessariamente schematica di questo saggio ci pare utile presentare qualche esempio dl moderne soluzioni grafiche che denotano nuove vie dl applicazioni ed esprimono inconsuete forme di espressioni visive.
Giuseppe Pellitteri
Sta in: la biennale di venezia no. 61 - marzo 1967, rassegna delle arti contemporanee, pp.38-50
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, posted on 3 Novembre 2006 at 11:49, filed under