Copertina del Manifesto del Terzo paesaggio
In questo preciso momento, ad un qualsiasi semaforo italico – sullo spartitraffico di turno –, si consuma l’ennesimo affronto ad uno scampolo di terreno. Un finestrino si abbassa ed implacabilmente qualcheduno scarica. Cicche, cartacce, plastica in sorte: per non parlare d’altro. Ecco illustrato, molto semplicemente, il caratteristico rapporto che intratteniamo con un tipico frammento del terzo paesaggio. Quello che, ad onta della sua invisibilità, è un habitat denso e, paradossalmente, fondato in gran parte da supposti spazi di risulta. Una sorta d’indefinita terra di nessuno. Qui avvengono accadimenti sconosciuti e piuttosto interessanti. Ma solamente essendo molto accorti potremmo coglierne il divenire e comprenderne l’importanza. Queste lande non sono fatte per i più, abituati alla naturalità giardinesca delle estese di prato plasticato monospecie, stucchevolmente rasate a mo’di tappeto daghestano.
In mille meandri residuali microscopici come un lichene, piccoli come un’aiuola, grandi come un fazzoletto di bosco planiziale di pianura miracolosamente sopravvissuto, ampî come declivi, vasti come quelli sottoposti al set-aside od abbandonati, si concentra l’indispensabile ed invisibile ricchezza della biodiversità. Sono lembi di suolo spesso ai margini delle città, vaghe isole sottoposte a pressioni fortissime da parte del territorio circostante. Qui, a tutte le latitudini, l’amalgama di specie animali e vegetali sopravvive nella varietà di comportamenti reciproci, evolvendo con una lentezza naturalmente esasperante nel tentativo di perpetuare il futuro biologico proprio e del pianeta. Piante pioniere, insetti delle più diverse specie, volatili, mammiferi. Esseri di piccola o grossa taglia. Questa è casa loro. Scegliere di non intervenire, in questi frangenti, è, per quanto bizzarro possa apparire, un’opportunità d’intervento.
Una boscaglia intricata ha un suo proprio ordine, pazientemente decifrabile. E questa constatazione può fungere da molla per ripensare il governo degli spazi aperti in modo più originale. L’osservazione attenta può portare a mutuare intuizioni anche per il più piccolo giardino, secondando la natura, al posto di combatterla. Sovente, le preferenze medie di chi commissiona verde, sono per l’impianto di individui asettici, che possibilmente non rilascino fastidiose foglie, privilegiando improbabili e costose piantagioni esotiche. Tanto che, ad esempio, il riuscire a mettere a dimora un semplice olmo è divenuto gesto assai insolito. Queste cose racconta nel suo libro Gilles Clément, che ha il non trascurabile merito, in poche e fittissime pagine apparentemente frammentate, di focalizzare e definire in autonomia, a seguito di sperimentazioni personali, i contorni del terzo paesaggio, scrivendone poi il manifesto.
Jardinier et écrivan, come lui stesso succintamente ama definirsi, Clément è, innanzitutto, un fine pensatore. E proprio il continuo interrogarsi, l’indugiare a lungo su aspetti non meramente formali, oltre a fare di lui un eccellente paysagiste lo rendono pure un raffinato teorico.
Gabriele Toneguzzi
Recensione apparsa su Parametro 264/265, luglio-ottobre 2006
Gilles Clément
Manifesto del Terzo paesaggio
(a cura di Filippo De Pieri)
Quodlibet, Macerata, 2005
pp. 87, 12.00 €
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, posted on 13 Novembre 2006 at 23:37, filed underBasilica di San Marco: strisciata elaborata da Luca Vascon, ottenuta da più foto tramite PTGui (notare il confine dei singoli fotogrammi componenti l’immagine finale; cliccare per aggrandire)
Non di solo Cad vive il progettista: una parte tutt’affatto trascurabile dell’attività lavorativa riguarda la documentazione fotografica. In questo campo, oltre a celeberrimi, costosi e pubblicizzati software, la nozione a proposito dei prodotti disponibili è sovente piuttosto scarsa. Panorama Tools è una suite di programmi e librerie software freeware, originariamente concepite dal fisico e matematico tedesco Helmuth Dersch, dell’Università di Furthwangen. Serve alla creazione, con criteri scientifico-proiettivi, di immagini panoramiche (nell’accezione più ampia del termine) e panorami immersivi virtuali derivati dalla sovrapposizione di più fotogrammi sorgente esistenti. Una versione aggiornata di queste utility è il cuore pulsante di molti software a ciò dedicati.
Il professor Dersch ha cominciato lo sviluppo di PanoTools nel 1998 ottenendo una serie di strumenti molto versatili, potenti e professionali per produrre panorami ed altro. Ma ha dovuto cessare lo sviluppo nel 2001 a causa di noie legali derivate da pretestuose accuse di violazioni di brevetti da parte di una ditta d’oltreoceano, forte della discutibile prassi d’assegnazione colà vigente. Una prassi peraltro osteggiata dai fautori dell’opensource e che, se introdotta pure in Europa – in linea teorica –, permetterebbe di brevettare qualcosa di molto simile, in campo software, all’acqua calda.
Allo scopo di rendere più immediato e produttivo l’uso di questo software sono state create, nel tempo, una serie di Gui (Graphical User Interface), gratuite od a pagamento, che integrano una serie di funzioni aggiuntive e risolvono dei difetti software originariamente presenti, confezionando un robusto set d’attrezzi che dovrebbero comparire nella cassetta degli utensili virtuali d’ognuno. Sono suite multifunzionali destinate a gestire l’assemblaggio delle immagini. Grazie ad esse, ad esempio, è possibile superare la fase quasi artistico-naïve della mosaicatura manuale, la giustapposizione d’immagini diverse resa caratteristica da Enric Miralles. Questo può tornar utile, ad esempio, quando il soggetto, per svariati motivi, non può rientrare totalmente entro l’inquadratura.
Onde evitare problemi di parallasse, più foto dello stesso soggetto devono essere scattate attorno al punto nodale della camera (centro ottico) con un’accettabile sovrapposizione ed un angolo di campo non troppo marcato (evitando in questo modo possibili deformazioni nelle zone laterali del prodotto finale, causate da nicchie e/o protuberanze), per essere in seguito combinate ed amalgamate entro un unico fotogramma omogeneizzato risultante dalla combinazione e rettifica d’esposizione, cromìe ed angolazione tramite trasformazioni numeriche. Grazie a quest’ultime è possibile ritoccare interattivamente, entro certi limiti, anche la prospettiva della presa correggendo il frequente problema delle linee cadenti. E pure, volendo – a mezzo di speciali plugin –, si possono assettare aberrazioni cromatiche e deformazioni geometriche indotte dalle ottiche degli obiettivi. Durante il caricamento delle immagini, i parametri di scatto sono dedotti in automatico dai dati Exif (un prezioso set di informazioni standard che oramai ogni digitale archivia appendendolo al file). Successivamente, un programma s’incarica d’individuare, pure in automatico, numerose coppie di punti comuni fra due fotogrammi contigui. Di seguito, i software compiono una procedura d’ottimizzazione dei dati e propongono un’anteprima dell’immagine risultante, sulla quale poi è possibile intervenire ancora per ritoccare l’esito finale. Infine è possibile procedere al salvataggio decidendo fra i molti formati disponibili.
PTMac è un’altra raffinata Gui dedicata ai Panorama Tools ed Enblend. È un programma shareware, ed è disponibile solo in versione Mac: Classic e OS X. Un po’ meno performante rispetto a PTGui
http://www.kekus.com/software/ptmac.html
PTAssembler è un’ulteriore e sofisticata Gui per i Panorama Tools, Autopano ed Enblend. Ceduta in modalità shareware, è disponibile solo in versione Win.
http://www.tawbaware.com/ptasmblr.htm
Hugin è un’altra ottima Gui multipiattaforma, purtroppo non ancora del tutto stabile, dedicata i Panorama Tools, ed integra Nona (una routine per cucire fra loro distinti fotogrammi), Autopano, Autopano-sift (altro gestore di punti comuni tra fotogrammi) ed Enblend. Oltre alle proiezioni proposte da PTGui, è in grado di elaborare proiezioni stereografiche, di Mercatore, (anche trasverse) e sinusoidali. È un programma open source e freeware per Linux, UNIX, OS X e Win
PanoWizard, ultima Gui trattata tra quelle dedicate a Panorama Tools comprende Autopano, SmartBlend ed Enblend. È un programma freeware disponibile solo in versione Win
http://www.egelberg.se/panowizard/
Enblend Front End è una sorta di involucro software costruito su Enblend. È un programma freeware disponibile in versione Win e, per le routines da abbinare a PTGui, anche su Mac
http://www.teapot.orcon.net.nz/enblend/enblend.html
PanoCube è un altro involucro software costruito attorno ai Panorama Tools per la conversione di immagini equirettangolari nel formato QTVR. È un programma shareware, ed è disponibile in versione Linux, Win e Mac OsX (per quest’ultimo, solo via command line)
http://www.panoshow.com/panocubeplus.htm
Pano2QTVR (Pano to Quick Time Virtual Reality) infine, è forse il miglior software utile a convertire immagini in panorami equirettangolari (360°x180°) in Quick Time movies cubici oppure in files Flash e concatenarli fra loro ottenendo tours virtuali; include un editore di Hotspot. È un programma shareware/freeware (per uso non commerciale), disponibile solo in versione Win
Aggiornamento: dalla release 2.x (da Ottobre 2007 in beta) è disponibile pure in versione Mac e Linux
Smartblend ottimo ed utilissimo strumento per l’omogeneizzazione, nella fase di assemblaggio, delle varie fotografie risolvendo problemi di parallasse, oggetti in movimento e di eposizione delle singole prese; disponibile, freeware, solo su piattaforma Win. Da abbinare, come plugin, in vari software fra cui PTGui e Hugin http://smartblend.panotools.info/
Informazioni generali a partire da http://panotools.org
oppure
Panotools Wiki
http://wiki.panotools.org/SmartBlend
Gabriele Toneguzzi
Articolo apparso su Il Giornale dell’Architettura (informatica) Luglio-Agosto 2006
Articolo di Luca Vascon Fotografia immersiva con Nikon Coolpix P5000
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, posted on 12 Novembre 2006 at 10:55, filed under
Questa è opera (versione low-res) di Mariacarla A. e Veronica N.; qualche piccola sbavatura ed imperfezione. Ma il risultato sembra digià buono. Ora pensate alla Fenice!
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, posted on at 00:12, filed under
Luigi Figini casa al villaggio dei Giornalisti, Milano 1933-1934
(cliccare sull’img per aggrandire l’anaglifo)
Questo è l’anaglifo (visione stereoscopica 3D apprezzabile con gli occhiali rosso/ciano) di casa-colle-zampe, come l’ha opportunamente battezzata R.; ecco il modello fotografato durante una visita didattica cogli studenti del corso Iuav-ClasVem, ieri entro la biblioteca del Mart, a Rovereto, che pure custodisce l’archivio dei Figini-Pollini.
Una casa su pilotis come Villa Savoie (1929-1931) « Si compone di due piani abitabili e di un sottoportico aperto, sotto il quale si prolunga il giardino. La pianta della casa, con forma rettangolare allungata, è orientata secondo la direttrice nord nord-est e sud sud-ovest e tutte le aperture sono disposte e dimensionate in funzione di una ottimale esposizione. Il sottoportico e i pieni e i vuoti soprastanti sono legati fra loro da rapporti armonici semplici. Un modulo costante determina le dimensioni sia in altezza che in orizzontale ». (brano tratto da Quadrante 31-32, 1935)
Qui sotto, il prospetto in una foto d’epoca: Potrete trovare ancora (però soffocata dall’attuale contesto) la casa a Milano, presso il csd. Villaggio dei giornalisti, in Via Perrone di San Martino
Piante e sezioni
Vista dall’alto
Foto dello stato attuale (fonte: Meam Net)
Esterno
Interno
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, posted on 9 Novembre 2006 at 12:42, filed under
Denver Art Museum, Daniel Libeskind
(cliccare sull’img per aggrandirla)
Tre foto scattate prima dell’inaugurazione, cucite assieme correggendo la prospettiva architettonica, scientificamente, tramite PTGui dell’ottimo Joost Nieuwenhuijse. Ed anche su Mac…
Grazie, Roberta!
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, posted on 5 Novembre 2006 at 21:35, filed under
la biennale di venezia / rassegna delle arti contemporanee n. 61
IL CARATTERE TIPOGRAFICO OGGI
È fuori discussione l’influenza che può avere il carattere tipografico nella formazione o deformazione del gusto e come esso sia o possa essere l’espressione di una sintesi dell’estetica visuale, quale si deduce in un determinato momento storico, in sintonia con le altre espressioni visive e anche in rapporto con le arti figurative e architettoniche o con altre attività di coordinamento di elementi visivi.
Mancano studi significativi e convincenti in ordine a questa realtà spesso sottovalutata o mal conosciuta.
Anche cultori assai autorevoli, se toccano l’argomento del carattere tipografico, sono portati talvolta a trattarne con sorprendente disinvoltura.
Gillo Dorfles, per esempio, all’inizio della sua interessante pubblicazione «Simbolo, comunicazione, consumo», volendo addurre un presunto evidente esempio di obsolescenza, un caso di rapido consumo, addita “…il divenire desueto del carattere tipografico Che verrà usato per comporre questo testo…”. Senonché, nel caso del volume del Dorfles, il carattere è il Garamond, che da quasi cinque secoli non accenna affatto a divenir desueto, anzi accoglie sempre più evidentemente ed universalmente il consenso dei grafici di ogni latitudine, ed è d’impiego sempre più generale e crescente.
La teoria dell’obsolescenza, perciò, occorre fondarla su basi più solide, perché la sua presunta generalizzazione indiscriminatamente riferita a tutti i casi di espressione visiva potrebbe essere facilmente contestata. Il “consumo” è un fatto certo e dimostrabile e anche statisticamente studiato con qualche successo, ma è altrettanto certa e dimostrabile la “persistenza nel tempo di determinate espressioni”.
Ho cercato di dimostrare nella recente Mostra della «Lettura del linguaggio visivo» organizzata dalla Scuola di Scienze e Arti grafiche deI Politecnico di Torino, che converrebbe studiare le espressioni visive utilizzando le risorse metodologiche in uso nelle trattazioni di quello che, troppo unilateralmente, finora è stato ritenuto in sede accademica l’unico linguaggio suscettibile di studio, vale a dire l’oggetto della glottologia.
La parola linguaggio va assumendo accezioni più ampie del circoscritto uso tradizionale riferentesi alla mera glottologia sebbene non è da oggi soltanto Che si parla di linguaggio pittorico, architettonico, musicale, ecc.
Nello studio della linguistica intesa come attività sociale di espressione e comunicazione, riferita a qualunque forma o mezzo di cui ci si possa servire, oltre al modo consueto della parola, sono certamente utili le indagini e le conclusioni elaborate dai linguisti tradizionali.
La stessa faticosa e ancor non raggiunta rivendicazione dell’autonomia della scienza linguistica, anzi l’ancora discussa definizione dell’oggetto della scienza del linguaggio, dimostra la labilità di certe demarcazioni troppo esclusive.
Le concomitanze ai vasti campi affini o indirettamente implicati col fatto linguistico rendono più problematica la delineazione della scienza linguistica.
Infatti, a seconda delle specializzazioni, delle particolari tendenze o degli interessi dei singoli studiosi il linguaggio è stato talora considerato, come problema della conoscenza, oppure come la normativa dell’espressione, come Io studio del meccanismo fisico dell’emissione della parole, come manifestazione della personalità di singoli o di collettività o come critica letteraria.
Le implicanze del fatto linguistico con la filosofia, la fisiologia, la psicologia, l’antropologia, la critica letteraria e i conseguenti disparati compiti assegnati alla linguistica da singoli studiosi hanno reso più ardua la sistemazione dottrinale di questa disciplina.
Inoltre le varie prospettive di studio: origini, essenza, fini, strumentalità della lingua estendono il campo delle indagini e danno il senso della complessità e varietà della questione.
La tematica linguistica diviene ancor più impegnativa se oltre al consueto mezzo della parola o dello scritto si studiano altri tipici mezzi di espressione e comunicazione.
L’esigenza di estrinsecazione del pensiero o del sentimento con la fissazione di immagini di valore universale è il movente essenziale di ogni manifestazione linguistica, e si hanno molteplici modi di soddisfare a questa fondamentale esigenza dell’individuo in ordine alla società di cui fa parte.
Lo studio comparativo di questi mezzi di espressione e comunicazione rientra evidentemente nell’ambito della linguistica nel significato più ampio del termine.
Mi pare che si debba partire da queste premesse per rendersi conto della realtà del carattere tipografico.
La stampa, come linguaggio, è governata da leggi analoghe a quelle che si riscontrano nella genesi e nell’evoluzione del linguaggio umano.
La libertà della creazione individuale, le norme fissata dalla tradizione, Io svolgimento Storico sono gli aspetti fondamentali distinguibili e nella stesso tempo indissolubilmente legati che gli studiosi hanno rilevato nella loro indagine sul linguaggio.
Storici, sociologi, psicologi, critici, etnologi, glottologi, filologi incontrano in ogni fase del loro lavoro i problemi del segno e del significato, dell’espressione e della comunicazione, della parole a della lingua.
La stampa prende le mosse dalle esigenze linguistiche, non può prescinderne, anzi ne traduce e interpreta gli aspetti formali e ne segue le vicissitudini.
Come la lingua muta nel tempo, non solo, ma in ogni luogo e momento chi parla o scrive si serve dei modi espressivi di ambienti particolari distinguibili, così Io studio della stampa può rintracciare e seguire nel loro svolgimento storico tanto i criteri che hanno guidato la libertà creatrice dei singoli, in rapporto alle norme fissate dalla tradizione, come pure i procedimenti e le tendenze secondo cui tali norme si sono costituite e trasformate.
Occorre saper “leggere” il carattere tipografico. Il semplice segno alfabetico, oltre alla convenzionale struttura morfologica, esprime anche altre realtà ed è portatore di vari significati e funzioni; infatti al valore fonetico o altrimenti convenzionale sono congiunti: un indirizzo sociale, un significato emblematico, una funzione ornamentale, per limitare l’elenco agli aspetti più salienti.
Par studiare il carattere tipografico moderno bisogna prender le mosse da un’ampia prospettiva e anche nel nostro caso il metodo sincronico e diacronico trova una valida utilizzazione.
Non c’è stata soluzione di continuità all’origine della stampa a caratteri mobili tra l’aspetto morfologico delle lettere dei codici e quelle riprodotte in tipi.
La mutuazione della struttura morfologica e stilistica del segno alfabetico vergato del copista e quello punzonato nella matrice e fuso dai prototipografi non è un caso di assuefazione pura e semplice, per mancanza di originalità; è invece la dimostrazione di una legge inderogabile del linguaggio visivo.
Le mutazioni in questo senso avvengono lentamente con inesorabile gradualità.
La curva dell’obsolescenza, soprattutto dei caratteri per testi, segue un andamento di impercettibile variazione, con scarti di tempo assai lunghi; anzi si può notare una sorta di ancoraggio a soluzioni formali che sfuggono risolutamente agli andamenti fluttuanti della moda.
Stanley Morison, uno dei più autorevoli tipologi viventi, dichiara che un carattere di testo avrà fortuna se le variazioni formali saranno individuabili solo dagli specialisti, perché il pubblico dei lettori non tollera passaggi bruschi nell’aspetto dei caratteri di testo.
La prospettiva storica del carattere ha infatti poche tappe veramente fondamentali, anzi si può asserire che il faticoso travaglio di cinque secoli di stampa, in ordine al dIsegno dei caratteri, ha portato a delle graduali e quasi impercettibili varianti dello stesso tema stilistico, lasciando presso che intatta la struttura fisionomica del carattere Romano.
I più significativi disegnatori di caratteri si prefissero sempre e si prefiggono tuttora la strutturazione di un “Romano”, quasi ad attingere dalle classiche iscrizioni delle lapidi e monumenti dell’antica Roma l’ispirazione, e quelle antiche iscrizioni interpretare e tradurre in tipi. A conferma di questa asserzione basta l’accenno al carattere che anche in Italia si sta affermando attualmente e che con denominazioni aventi soprattutto motivazioni commerciali, si ispira al «Times new Roman», curato da Stanley Morison, che a sua volta è una delle più felici interpretazioni del Romano classico lapidario con l’arricchimento delle laboriose soluzioni che iniziarono col «Roman du Roi».
Una rapida scorsa all’opera dei più importanti tipologi e artisti del carattere latino per testi conferma ulteriormente quella tesi: Jenson, Griffo, Garamond, Granjon, Plantin, Grandjean, Caslon, Baskerville, Fournier, Fleischman, Didot, Bodoni, Ibarra, Walbaum, De Vinne, Dwiggins, Erbar, Gill, Austin, Goudy, Bayer, Butti, Novarese, Griffith, Höfer, Bauer, Krimpen, Mardersteig, Middleton, Miedinger, Morison, Renner, Tannhäuser, Trump, Tschörtner, Weiss, Winkow, Wolf, H. Zapf. Frutiger, ecc.
Si studino diligentemente le collezioni tipologiche di questi e di altri importanti artisti e si avrà conferma che, pur nella evidente diversità stilistica, c’è una costante e talora quasi impercettibile ricerca del perfezionamento della fondamentale struttura alfabetica romana.
Non si vuol dire che tra il romano jensoniano e l’Univers del Frutiger non ci sia divario di stile, si vuole soltanto sostenere che nell’elaborazione di caratteri non si tratta tanto di ricerca di sensazionali novità o di mode suggestive e passeggere, ma di un costante, graduale, perfezionamento di una stessa struttura, la cui evoluzione si svolge in modo analogo al fatto linguistico.
La lingua italiana attuale differisce dalle lingue del Trecento a dei secoli successivi, ma si tratta pur sempre fondamentalmente della stessa lingua italiana.
Un significativo caso di quasi testardo ritorno alle fonti genuine del carattere umanistico è quello di William Morris; egli si prefisse di combattere l’anonimismo industriale per conferire al lavoro un’impronta di personalità. Dalla Kelmscott Press il Morris pubblicò soprattutto col Golden Type delle edizioni significative sotto il profilo grafico e di coerenza stilistica con la linea teorica precedentemente formulata.
Ma come il linguaggio gradualmente si configura in modi diversi anche se emergenti lentamente, anche il carattere tipografico segue le vicissitudini generali delle espressioni visive e si sintonizza con le tendenze generali di rinnovamento stilistico.
Il fatto più significativo è dato dai “lineari”, ossia dai caratteri senza terminali.
La remota origine di questo stile tipologico può ricercarsi nelle antiche iscrizioni greche e latine che precedettero di vari secoli il Romano, prototipo dei caratteri classici di ogni tempo, ma i primi tipi lineari compaiono nel secondo decennio del secolo scorso.
Le collezioni alfabetiche di William Caslon IV, di Vincent Figgins, di William Thorowgood sono i prototipi di uno stile che doveva arrivare lontano e segnare una tappa assai significativa nella storia del carattere tipografico. Il secolo scorso si chiude col fortunato «Akzidenz Grotesk» della fonderia Berthold; nel nostro secolo c’è un crescendo quantitativo e un affinamento sempre più scaltrito nella tipizzazione dei lineari.
Une spinta verso la definitiva sistemazione anche teorizzata di questo moderno stile alfabetico fu data dalla Bauhaus, che contribuì all’affinamento e alla razionale applicazione dei lineari.
In polemica con la teorizzazione del Morris, la Bauhaus, convinta dell’impossibilità di un ritorno globale all’artigianato, e coll’intento di disancorarsi dagli schemi del passato, anche se illustre, puntò verso la nuova formula pedagogica secondo cui un oggetto deve essere soprattutto funzionale.
L’essenzialità, la razionalità, l’elementarità trovarono la loro naturale espressione anche nella tipologia “lineare”.
Ben presto e a lungo raggio la lezione fu compresa e l’esempio attecchì: pertanto si ebbe una ricca fioritura di collezioni aIfabetiche senza terminali
L’Erbar, il Futura di Paul Renner, il Kabel, Io Stahl, il Nobel, il Neuzeit Grotesk, i lineari della Monotype e molti altri ebbero un largo impiego.
Un posto a parte, per la diversa ispirazione stilistica, in un certo senso in, polemica con la didassi della Bauhaus, spetta al lineare di Edoardo Johnston eseguito per la Metropolitana londinese, e ai Sans serif di Eric Gill.
Le imitazioni e le contraffazioni naturalmente dilagarono ovunque, segno che il nuovo stile era man mano penetrato nell’uso, e si era formata la consuetudine visuale col lineare.
Recentemente la tipologia dei caratteri senza terminali si è arricchita di nuovi geniali interpretazioni, tra le quali spiccano l’Univers di Adrian Frutiger, l’Helvetica della fonderie Haas, il Mercator della fonderia Amsterdam, il Folio della fonderia Bauer.
Altra caratteristica assai rilevante che si è accentuata partendo dai primi decenni del secolo scorso è la varietà delle serie promananti da uno stesso ceppo stilistico.
Ai nostri giorni, l’introduzione della fotocomposizione ha accresciuto illimitatamente le possibilità delle variazioni dei tipi: modificabilità di pendenze, di nerezze, di spessori, allungamenti, inversioni, polimorfosi.
Ormai il limitato campionario di caratteri è un ricordo storico, e il moderno impaginatore dispone di risorse tipologiche inimmaginabili negli anni quaranta.
Sotto certi aspetti siamo alle soglie di una rivoluzione tipografica in ordine alla tipizzazione, e si può dire che i grafici attuali non hanno ancora tutta la consapevolezza delle nuove risorse e non sono sufficientemente scaltriti per dominare e strumentalizzare i nuovi mezzi grafici.
Ma, soprattutto per la composizione dei testi, c’è da riconfermare la validità delle fondamentali collezioni alfabetiche che hanno dato buona prova nel corso dei cinque secoli di stampa.
Il Bembo, il Garamond, il Baskerville,il Times new roman, il Plantin, il Walbaum, il Bodoni, il Van Dyck, il Bell, l’Imprint, lo Scotch, il Didot, lo Spectrum, il Centaur, il Dante, il Bulmer, il Goudy, l’Emerson, e altri classici della tipologia appartengono ormai all’essenza della tipografia che il tempo non cancellerà.
Del resto, ormai il carattere latino è stato oggetto di così attento, prolungato e universale studio che si può delineare un prospetto degli incasellamenti stilistici entro cui ogni futura elaborazione potrà essere agevolmente collocata.
La classificazione morfologico decimale che da anni ho sperimentato in sede didattica e in ambienti tecnici, costituisce, mi pare, un utile strumento per Io studio delle molte migliaia di collezioni alfabetiche esistenti e un agevole orientamento per le proprie scelte.
L’Impiego del carattere tipografico è un argomento assai allettante a ampio, ancora più vasto se si pensa che le forme alfabetiche interessano non soltanto la stampa ma anche l’architettura e, in genere, ogni espressione visiva.
Il volto delle città è anche marcato dei segni alfabetici che ne denotano il gusto e, in genere, gli orientamenti estetici. Un’iscrizione, un’insegna, una dicitura luminosa, come une pagina stampata contrassegnano la personalità del progettista o committente e influenzano il fruitore.
Anche il carattere tipografico è un fatto distintivo dl cultura e di sensibilità. Con esso possono ottenersi delle strutture grafiche che esulano del consueto uso dello stampato tradizionale.
Data la nature necessariamente schematica di questo saggio ci pare utile presentare qualche esempio dl moderne soluzioni grafiche che denotano nuove vie dl applicazioni ed esprimono inconsuete forme di espressioni visive.
Giuseppe Pellitteri
Sta in: la biennale di venezia no. 61 - marzo 1967, rassegna delle arti contemporanee, pp.38-50
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, posted on 3 Novembre 2006 at 11:49, filed under
Treviso
Per Trieste, Udine e Belluno
Sempreverde…
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, posted on at 11:05, filed under
Quadrante I, p. 21, 1933
SITUAZIONE GRAFICA
Una tipografia rimasta estranea al movimento che sconvolge e feconda le altre arti sarebbe stato un fatto più preoccupante che curioso. Perchè essa costituisce, forse, lo strumento di maggior efficacia nella propaganda del gusto nuovo: i suoi prodotti, in tutte le ore e sotto tutte le forme, attingono ogni gradazione del pubblico e possono portare alla persuasione i cervelli dopo di avere persuaso gli occhi.
La tipografia, ramo dell’architettura, ha seguito con aderenza l’evoluzione dell’arte maggiore. Bizzarra o indecisa sul finire del periodo umbertino, di una preziosità equivoca all’epoca dell’infatuazione dannunziana, culturalista e neoclassica nel decennio del dopoguerra, oggi è razionale ed espressionistica.
Naturalmente, ogni revisione di indirizzo costruttivo eccitava le polemiche fra conservatori e revisionisti. Per questo oggi nel campo grafico i contrasti sono vivi, come nel campo dell’architettura.
Tanto più che la nuova tipografia non è una questione di impiego di nuovi, o pseudo nuovi, elementi formali sopra la schema tradizionale: ma opera in profondità, intaccando l’essenza del sistema costruttivo in atto.
Caratteristica della tipografia italiana di oggi, è il neoclassicismo derivato, con poche varianti, dalle attuazioni di quegli americani che le compostezze alla Adam, cui gli inglesi sono tenacemente attaccati, hanno reso più vive attraverso lo studio intelligente degli archetipi cinquecenteschi, particolarmente italiani.
Appunto dopo essersi ispirato a quelle attuazioni, qualche nostro tipografo più avvertito, s’è accorto di seguire copie di roba italiana. È stata una grandissima scoperta che, nella soddisfazione del fine raggiunto, ha fatto dimenticare il mezzo: la «nuova» pagina italiana vista attraverso la mentalità anglosassone; donde l’espressione «nitida» ma gelata, peculiare alla tipografia neoclassica. Così che, considerate soltanto le caratteristiche formali dello stile – quei caratteri arcaicizzanti che ci riattaccavano alle glorie della rinascenza; quei respiri dei margini ampi e cromatismi decorativi, che portano in sè elementi definiti mediterranei – sulla scorta di quelle si è ritenuto legittimo proclamare una «italianità» arbitraria dello stile neoclassico.
Basterebbe por mente al fatto che questo è stato creato per il libro, mentre non il libro ma la rivista, l’opuscolo, il catalogo, sono i prodotti caratteristici del nostro tempo, per comprendere perchè il modulo neoclassico negli impieghi moderni tanto più denuncia di essere espresso da sensibilità lontane, rivolto ad altri fini, creato per altro materiale. Gli adattamenti non sono riusciti a saldare le forme arcaiche con i bisogni della espressione e della presentazione moderne: nè la potevano, evidentemente.
La tipografia nuova sta vivendo la stessa cronaca dell’architettura nuova. Venute dopo le attuazioni straniere (di là dove un intelligente e premuroso amore studia all’arte grafica aspetti più coerenti con i bisogni attuali), le nuove costruzioni grafiche sono state definite «roba d’importazione», tanto dagli interessatissimi esponenti del neoclassicismo quanto dai loro epigoni, più pigri e meno informati.
Anche qui, i difensori della «italianità» hanno dimenticato, per esempio, che i futuristi italiani furono i primi a cercare una nuova espressione attraverso l’annullamento dello schema tradizionale: al modo stesso che gli architetti antirazionalisti avevano dimenticato Sant’Elia.
La questione di «fare all’italiana» nella tipografia è un espediente dialettico, neppure abile.
Messi alle strette, i migliori campioni di questa teoria non sanno precisare in che consistano veramente le formule «italiane»: perchè al loro buon senso non sfugge come il gusto tipografico cinquecentesco sia stato anch’essa un gusto europeo, come i suoi moduli siano inesorabilmente anacronistici, come lo stile neoclassico sia ormai una formula congelata ed inespressiva, dove il moderno è rappresentato soltanto da pennacchi postfloreali di gusto discutibile e transitorio.
Gli eccessi e le deviazioni della nuova tipografia sono le manifestazioni naturali della ricerca e del tentativo. Farne oggetto di critica è una cosa: cercarvi la stroncatura, un’altra cosa.
Per il legame che esiste fra architettura e tipografia, i tipografi 1933 possono legittimare i loro concetti con gli stessi argomenti dialettici che servono agli architetti 1933.
GUIDO MODIANO
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, posted on 1 Novembre 2006 at 20:02, filed underETR 600 Pendolino (mockup Alstom)
Durante i Giochi Olimpici invernali è stato esposto nella stazione di Torino Porta Nuova il simulacro del nuovo Pendolino commissionato da Trenitalia alla società Alstom in 12 esemplari, al costo di circa 20 mln di euro cadauno, che verrà consegnato forse verso fine d’anno. Si tratta della quarta versione dell’eccellente convoglio ad assetto variabile realizzato, per diverse aziende ferroviarie, in oltre 400 esemplari nell’arco di trent’anni. (altro…)
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, posted on at 02:11, filed under
Emil M Cioran biografia
Ho voglia di scrivere solo in uno stato esplosivo, nella febbre o nella convulsione, in uno stupore mutato in frenesia, in un clima da regolamento dei conti, in cui le invettive sostituiscono gli schiaffi ed i calci. Di solito succede così: un leggero tremore che diventa sempre più forte, come dopo un insulto incassato senza rispondere. Espressione sta per replica tardiva oppure aggressione differita: scrivo per non passare all’atto, per evitare una crisi. L’espressione è sollievo, rivincita indiretta di chi non può digerire un’onta e si ribella a parole contro i propri simili e contro di sé. L’indignazione è meno un moto morale che letterario, è anzi la molla dell’ispirazione. E la saggezza? Esattamente l’opposto. Il saggio che è in noi rovina tutti i nostri slanci, è il sabotatore che ci sminuisce e ci paralizza, che spia il pazzo in noi per calmarlo e comprometterlo, per disonorarlo. L’ispirazione? Uno squilibrio subitaneo, voluttà senza nome di affermarsi o distruggersi. Non ho scritto una sola riga alla mia temperatura normale. Tuttavia, per lunghi anni, mi sono ritenuto il solo individuo esente da tare. Quell’orgoglio mi fu benefico: mi ha permesso di riempire fogli. Praticamente ho cessato di produrre nel momento in cui, calmatosi il delirio, sono divenuto preda di una modestia perniciosa, funesta per quello stato febbrile da cui emanano le intuizioni e la verità. Posso produrre solo se, disertato improvvisamente dal senso del ridicolo, mi considero l’inizio e la fine.
Scrivere è una provocazione, una visione fortunatamente falsa della realtà che ci situa al di sopra di ciò che è e di ciò che sembra essere. Rivaleggiare con Dio e persino superarlo con la sola virtù del linguaggio, ecco l’impresa dello scrittore, esemplare ambiguo, lacerato e infatuato che, uscito dalla sua condizione naturale, si è abbandonato ad una vertigine superba, sempre sconcertante, talvolta odiosa. Niente di più miserevole della parola, eppure grazie ad essa ci si apre a sensazioni di felicità, a una dilatazione estrema in cui si è totalmente soli, senza il minimo senso di oppressione. Il supremo raggiunto con il vocabolo, con il simbolo stesso della fragilità. Curiosamente, lo si può raggiungere anche con l’ironia, purché questa, spingendo al limite la sua opera di demolizione, dispensi brividi di un dio alla rovescia. Le parole come agenti di un’estasi capovolta… Tutto ciò che è veramente intenso ha i caratteri del paradiso e dell’inferno, con questa differenza, che il primo possiamo solo intravederlo, mentre il secondo, abbiamo la ventura di percepirlo e, più ancora, di sentirlo. Esiste un vantaggio ancora più notevole, di cui lo scrittore ha il monopolio: quello di sbarazzarsi dei propri pericoli. Mi chiedo cosa sarei diventato senza la facoltà di riempire delle pagine. Scrivere significa disfarsi dei propri rimorsi e dei propri rancori, vomitare i propri segreti. Lo scrittore è uno squilibrato che si serve di quelle funzioni che sono le parole per guarirsi. Su quanti malesseri, su quanti accessi sinistri ho trionfato grazie a questi rimedi insostanziali!
Scrivere è un vizio di cui ci si può stancare. In verità, io scrivo sempre meno, e finirò probabilmente col non scrivere più del tutto, col non trovare più il minimo fascino in questa lotta contro gli altri e contro me stesso.
Quando ci si dedica ad un argomento, anche un argomento qualsiasi, si prova un senso di pienezza, accompagnato da un pizzico di albagia. Fenomeno ancora più strano: quella sensazione di superiorità quando si evoca una figura che si ammira. Con quanta facilità, nel mezzo di una frase, ci si crede al centro del mondo! Scrivere e venerare non vanno d’accordo: lo si voglia o no, parlare di Dio, è guardarlo dall’alto. La scrittura è la rivincita della creatura e la sua risposta a una Creazione raffazzonata.
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, posted on 26 Ottobre 2006 at 10:55, filed under