Cambiare aria fa bene. E Londra val bene una mossa. Stavolta per curiosare al Design Festival, in occasione del suo quinto compleanno. È una rassegna eclettica, un collante occasionale delle discipline creative che orbitano intorno alla scena del progetto. Il motivo maggiore d’interesse, al dilà dell’overdose d’opportunità per guardare questo o quello, di qualità o meno, è l’utile caccia di storie per capire da che parte tira il vento in questo non certo secondario crocevia del mondo.
100% design: ad un seminario, Jeremy Myerson, del Royal College of Art, presenta Paula Dib, interessante social designer brasileira, giovane ma non sconosciuta, premiata nel 2006 come International Young Design Entrepreneur of the Year dal British Council. L’affascinante Paula, priva dell’avambraccio sinistro, illustra e discute, con passione e competenza, l’esperimento fatto nella propria terra rilevando il valore non accessorio del design per il riscatto di comunità emarginate, nel sottolineare l’importante portato della crescita, oltre che economica, anche culturale (e pure, sorprendentemente, in tarda età) delle genti locali. È stata chiamata in terra britannica dal British Council per un altro interessante progetto, il 60 Hour Design Challenge: mescolando studenti brasiliani e locali delle scuole superiori ha lavorato allo scopo di far creare degli oggetti che facilitino l’integrazione sociale fra diverse culture, ottenendo anche qui dei risultati pregevoli, nondimeno in un tempo estremamente limitato.
Paula s’era presentata pure a Milano, al salone del 2006. Ed è stata pubblicata da ‘Area’ nell’Aprile scorso. Diversamente da quanto accadutogli nella perfida Albione, in concreto, qui da noi, par gli sia successo nulla. Come del resto accade di norma. Ad ogni modo, limitandoci esclusivamente al nostro orto, gli italici nella sua condizione son stati tanti. Eran giovani e forti, ma in più di qualche caso sono morti. Forse per eccesso di chiacchiere. Tirando una riga sotto la somma di molti concorsi si può notare quanto raramente ne nascano opportunità concrete. Ancora, forse la mortalità si deve anche a miopia, visto che le aziende nostrane (le più importanti in testa), per sorte affette pure da provincialismo, difficilmente si dedicano alla promozione di paisà.
Il primo giorno d’estate, benedetto dal competente ministro, a Roma s’è ufficialmente insediato il Consiglio Nazionale del Design. Dopo tre mesi, in quel di Milano, il primo giorno d’autunno, Davide Rampello, Michele De Lucchi, Silvana Annichiarico, Andrea Branzi, Peter Greenaway, Italo Rota, descrivevano il Triennale Design Museum che sembra verrà partorito, dopo una gestazione geologica, il 6 dicembre prossimo. Il giorno appresso, sabato 22 settembre (12.50 Gmt), nel London Design Museum solingo spiava, spiato, fra le sale di mostre inaugurate da tempo, Deyan Sudjic, il suo direttore: un contadino che, sistemato vomere e versoio dell’aratro, prima di finire passava in rassegna il proprio campo. E controllatolo, semplicemente se ne andava.
Gabriele Toneguzzi
Pezzo apparso ne Il Giornale del Design, ottobre 2007
This entry was written by Articoli/scritti, Biblioteca, Industrial design, Recensioni, Riviste. Bookmark the permalink. Follow any comments here with the RSS feed for this post.
, posted on 6 Novembre 2007 at 18:18, filed under